Conoscere il passato è sempre importante. Purtroppo, anche a causa di una formazione scolastica che lascia ben poco (e sempre meno) spazio alle materie storiche, la conoscenza delle popolazioni antiche è spesso scarsa. Qualunque occasione di approfondirla è dunque importante e benemerita. Ma, ciò premesso, quando la storia che possiamo approfondire è quella della Grecia classica, il discorso acquista un valore ulteriore: cosa questa — è bene dirlo subito — che nulla ha a che vedere con la pretesa e per tanto tempo asserita superiorità della Grecia sulle altre culture antiche. Il diverso valore dipende dal fatto che la cultura che i Greci ci hanno lasciato è stata ed è tuttora alla base di quella occidentale, nella quale viviamo. Il che non significa, peraltro, che alla base della nostra cultura stia solamente la Grecia. Oggi, fortunatamente, non si parla più del cosiddetto «miracolo greco», vale a dire il presunto fiorire quasi dal nulla, nella Grecia nel V secolo a.C., della filosofia, del teatro, dell’arte, della scienza e dei concetti di libertà e democrazia.
All’interno degli intensi rapporti commerciali e intellettuali esistenti tra il continente asiatico, quello africano e la parte orientale di quello che oggi chiamiamo europeo, i miti viaggiavano insieme ai marinai e alle mercanzie, mescolandosi e fondendosi in un mondo di cui era parte integrante il territorio che sarebbe diventato greco. E veniamo a un altro esempio: nei secoli VII-VI a.C. nella penisola anatolica, ove erano stanziate le colonie greche, esisteva una cultura comune. I Greci, avendo appreso l’alfabeto dai Fenici, lo avevano insegnato ai Frigi, e avevano adottato la moneta inventata in Lidia. Senza nulla togliere ai nostri infiniti debiti verso i Greci, come non riconoscere che questi avevano a loro volta (e noi con loro) dei debiti verso le popolazioni orientali, sia indoeuropee sia semite?
Non è poco, dunque, la necessità che oggi si pone a chi si avvicina al mondo antico, di riconoscere un modello multiculturale che spieghi la nascita e lo sviluppo della civiltà greca nel contesto di quelle che fiorivano sulle rive del Mediterraneo. I problemi del rapporto tra le culture europee e quelle che si affacciano sulle coste mediterranee dell’Asia Minore e dell’Africa sono difficili e complessi: se è vero infatti che il Mediterraneo può essere un concetto senza tempo e trans-storico, quel che ricade nella sua orbita non è tale. Le diverse zone che compongono quel mondo sono connesse tra loro in modo che dipende dalle attività di chi le abita. E poiché l’estensione geografica di queste connessioni varia, quel che può essere chiamato Mediterraneo cambia al punto che, a volte, il centro di quel mondo può essere fuori dell’Europa, in regioni dell’Asia e dell’Africa, marginalizzate dagli studi su questo mare. Come accadde, ad esempio, nella tarda età del Bronzo, quando la Mesopotamia era parte del Mediterraneo, e questo (quantomeno quello orientale), era l’Oriente. La contrapposizione Oriente-Occidente allora non esisteva.
E oggi? Qual è il Mediterraneo di oggi? Quali popoli ne fanno parte, o ne hanno fatto parte nei tempi di un colonialismo le cui responsabilità sembrano dimenticate? Di chi è — tra i tanti problemi — il dovere di farsi carico dei popoli che tentano di attraversarlo? Alcuni decenni or sono Arnaldo Momigliano, il più grande storico antichista del secolo scorso, scrisse che «là dove tutta la civiltà è minacciata la conoscenza delle sue radici diventa essenziale». Mai come oggi io credo sia necessario ricordarlo, nel momento in cui quel mare che i nostri antenati Romani amavano chiamare mare nostrum, nostro (solo nostro) non è più da tempo, e non possiamo continuare a trattarlo come tale. Anche per questo serve approfondire la storia dell’antichità.
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