La Galleria d’Arte moderna e contemporanea di Bergamo è un museo che, soprattutto con la direzione di Lorenzo Giusti, ha acquisito sempre maggiore autorevolezza sullo scenario sia nazionale sia internazionale, come hanno dimostrato anche le iniziative organizzate durante la pandemia. Ora, in un mondo che si trova di nuovo a fronteggiare spettri che sembravano essere stati relegati nel passato, alla GAMeC si inaugurano due nuovi progetti in coincidenza con un anniversario del museo, che lo stesso direttore ci ha presentato.
“Abbiamo deciso di dedicare questo ciclo di mostre e di progetti ai trent’anni della GAMeC – ha detto Giusti ad askanews – che ha aperto le proprie porte al pubblico nel 1991. Una delle due mostre che apriamo oggi, La collezione impermanente 3.0, è la terza di un ciclo dedicato alle nostre raccolte, all’interno della quale presentiamo tutte opere realizzate negli ultimi 30 anni. L’altra mostra è curata da Panos Giannikopoulos, curatore vincitore del Premio Bonaldi”. Temporaneità, movimenti, impossibilità di fissarsi su forme e interpretazioni. Proprio la non-permanenza del pensiero, come qualità complessa, è al centro del terzo capitolo del progetto di esposizione della collezione della GAMeC, curata da Valentina Gervasoni e Fabrizia Previtali insieme a Sara Fumagalli, che abbiamo incontrato.
“L’impermanenza delle narrazioni e dei giudizi di valore – ci ha detto – che sono comunque contingenti e non permanenti. Questo atteggiamento ci è utile per aprirci a nuove prospettive future, a essere pronti a cambiamenti di punti di vista. E la mostra cerca quasi di radicalizzare questo concetto, costituendosi come un display fluido e dinamico nel quale succedono delle cose”. L’esposizione presenta pezzi importanti di Berlinde De Bruyckere, Giorgio Andreotti Calò, Sol LeWitt, Antonio Rovaldi, ma il punto focale è la narrazione complessiva e provvisoria che se ne ricava, lasciandosi trasportare dalle suggestioni mobili di ogni sala. Nello stesso modo, seppur con un tono diverso, si muove anche l’esposizione “Dancing Plague”, che Panos Giannikopoulos ha immaginato intorno all’idea della danza.
“Usciamo da un periodo – ci ha detto il curatore greco – nel quale danzare era proibito, perché era ritenuto pericoloso. Così ho pensato alla connessione con i rituali che si tenevano in Europa tra il XIV e il XVII secolo nei quali le persone ballavano fino allo sfinimento e alla morte. Ma poi ho voluto collegarmi anche alla cultura rave e all’importanza della danza per lasciarsi andare e connettersi con gli altri, non solo tra umani, ma anche in senso più ampio”. Una connessione sottile che è la stessa che il museo negozia di volta in volta con il proprio pubblico, in una dinamica che, nei momenti migliori, diventa di scambio reciproco e di reciproca crescita. Soprattutto a livello di consapevolezza di ciò che significa pensare l’arte contemporanea.
Fonte Askanews
Facebook
Twitter
YouTube
RSS