a cura di Maria Stella Bottai/
C’era un tempo in cui l’Oriente rappresentava per il pubblico europeo quel ‘lontano nel tempo e nello spazio’ che la società borghese sognava collezionando quadri, oggetti, stoffe e mobili con cui rendere più raffinato, e colorato, l’arredamento domestico. Mentre scrivo mi rendo conto che questa frase potrebbe riferirsi ai tempi nostri, che da qualche anno focalizzano l’attenzione sull’arte dell’area mediorientale, un esotismo del contemporaneo ai giorni nostri. Ce lo dicono le tante iniziative espositive in corso al momento: dal primo focus sugli artisti mediorientali ospitato dall’Armory Show 2015 alla prossima fiera di Dubai, che attrae ogni edizione un numero crescente di investitori; dalla mostra alla Pinacoteca di Bologna (Too Early, Too Late. Middle East and Modernity) a quella sugli Ottomani e gli artisti del Rinascimento a Bruxelles (The Sultan’s World: The Ottoman Orient in Renaissance Art). È tutto un parlare e scoprire artisti sauditi, libanesi, siriani, palestinesi, turchi, iraniani e iracheni, solo per citare le nazionalità più ricorrenti. In questa nouvelle vague del Medio Oriente inseriamo la mostra che ha da poco aperto alle Scuderie del Quirinale: Matisse. Arabesque, a cura di Ester Coen (5 marzo – 21 giugno 2015).
Cento anni fa l’Orientalismo raggiungeva il suo apice in Francia con le opere di Henri Matisse. Formatosi nell’ambiente degli Orientalisti, allievo di Gustave Moreau – che di segni orientaleggianti ha cosparso molte sue opere simboliste – Matisse reinterpreta i soggetti del genere pittorico e ai berberi nel deserto, ai mercanti nella casbah, alle donne nell’harem sostituisce un Oriente formale, fatto di colori, arabeschi, tessuti e geometrie resi con il suo tratto essenziale tutto di superfice. L’arabesco è il tema, centratissimo, della mostra a cura di Ester Coen. Non si tratta dunque di una retrospettiva (e aggiungiamo che il numero dei quadri sembra non riuscire a riempire il vuoto dei grandi spazi delle Scuderie) ma scopriamo delle vere perle rare. Accanto a tele per la prima volta in Italia, come Zohra sulla terrazza (1912, Museo Puskin di Mosca) e Marocchino in verde (1912, Hermitage di San Pietroburgo), vi sono capolavori assoluti come il Ritratto di Yvonne Landsberg (1914, Philadelphia Museum of Art) e Pesci rossi (1912, Museo Puskin di Mosca). Tele a cui la curatrice ha giustapposto le ‘fonti’, ovvero stoffe, maioliche, decorazioni, utensili, mobili, oggetti simili a quelli che hanno ispirato Matisse (non dunque appartenuti all’artista) e provenienti da musei internazionali di arte orientale, come il Pigorini e l’Isiao di Roma e il Victoria&Albert di Londra. L’idea sembra essere quella di ricreare la “cosmogonia artistica” che evoca il pittore nel ricordare l’atmosfera di quegli anni a Parigi, quando gli artisti si muovevano tra il Trocadéro, il Musée de l’Homme e le mostre dedicate all’arte musulmana.
Matisse non tradisce mai. La mostra è bella, e fedele al progetto scientifico, ma risente forse di un allestimento austero, agli antipodi del tema. In passato le Scuderie ci hanno abituato a spazi interpretati con più fantasia e il grande spazio bianco che vediamo oggi esalta le singole opere, è vero, ma non rende quell’horror vacui, la trama continua e l’arabesque del segno che invece vediamo ricreato dal maestro negli ambienti dove lavorava.
Concludiamo ricordando un punto interessante sottolineato dai testi in catalogo, ovvero il rapporto di Matisse con i tessuti, le stoffe che arredavano il suo studio e vestivano le sue odalische, le sue marocchine, o i letti su cui si sdraiavano le sue modelle. A questo proposito segnaliamo la bella mostra OffLoom, al momento in corso proprio al Museo delle Arti e Tradizioni Popolari di Roma, che sebbene con approcci diversi ci mostra una bella selezione di Fiber Art, ovvero l’uso di tessuti di varia composizione nell’arte contemporanea (OFF LOOM II – Fiber Art / Arte fuori dal telaio, fino al 12 aprile).
Immagine: Henri Matisse, Il paravento moresco
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