Ormai sappiamo tutti che per la politica italiana, qualsiasi essa sia, i termini “giovani”, “innovazione” e “tecnologia” sono come il diavolo e l’acqua santa. Nonostante le migliaia di segnalazioni che giungono agli Uffici governativi in merito a progetti che potrebbero seriamente contribuire a cambiare in meglio (molto in meglio ndr) il volto dell’economia italiana, purtroppo, tutto risulta essere fermo.
Innovazione tecnologica è un termine che non si confà a chi è cresciuto culturalmente in un sistema economico basato su altro peso e altra misura.
Un sistema fallimentare che ha prodotto all’Italia la più importante depressione finanziaria dal dopoguerra e con è più capace di guardare avanti.
L’attuale Governo ha sostituito tutta la politica nazionale che non è capace di parlare il complesso linguaggio delle Banche e dell’alto mondo della Finanza se non, come si sta dimostrando, per tirare acqua ai propri mulini, famiglie, congreghe, partiti, etc. Non si poteva fare diversamente per sanare un debito immane e che i giovani pagheranno invecchiando con esso. Ma grave per davvero è l’incapacità di tutti coloro i quali sono stati e sono oggi al Governo, di non riuscire in nessun modo ad individuare la via d’uscita. Il motivo è semplice: essa è fuori dalla loro portata culturale poichè oggi, parlare di “Innovazione” deve poter essere di menti giovani e raffinate che sanno produrre anche solo con un algoritmo miliardi di Euro. a cura di Eta Beta
La necessità far ripartire la crescita è diventata ormai una specie di mantra, ma che sia facile è un altro paio di maniche. Il rapporto annuale Istat 2012 spiega infatti che la crescita della produttività del lavoro legata allo sviluppo tecnologico, in Italia, è ininfluente, al contrario di quasi tutti gli altri Paesi europei. Per questo bisogna ripartire da qui. Linkiesta pubblica nella sezione “Scelti per voi” questo contributo di Paolo Manasse, docente di Macroeconomia e politica economica all’Università di Bologna, originariamente apparso sul blog Back of the envelope.
Che far ripartire la crescita in Italia sia necessario è oramai una specie di mantra. Che sia facile, per Monti o chiunque altro, è un’altro paio di maniche. Il Rapporto annuale 2012, che contiene una miniera di dati e spunti interessanti, spiega bene il perché.
Nel terzo capitolo viene svolto un esercizio che gli studenti di Macroeconomia conoscono bene, la cosiddetta “contabilità della crescita”. La crescita della produttività del lavoro viene decomposta in due principali componenti, quella è spiegata dalla aumento del capitale per addetto, e quella dovuta ad una componente residuale, chiamata “produttività totale dei fattori” ( TFP, aka “residuo di Solow”). Questa parte cattura gli effetti dello sviluppo tecnologico e dell’efficenza organizzativa con cui vengono “combinati” i fattori produttivi. La TFP è la parte più importante, perché garantisce che il processo di crescita non si arresti.
L’accumulazione del capitale per addetto viene ulteriormente suddivisa tra quella legata a capitale fisico (legato alle tecnologie di informazione e telecomunicazion ICT, e non) e quella dovuta al capitale “intangibile” (uso di software, spese in Ricerca e Sviluppo e altro). Guardando alla crescita della produttività nel periodo pre-crisi1995-2007, in Italia e in Europa, si possono fare alcune considerazioni.
Come noto, la produttività del lavoro è cresciuta molto meno in Italia (0,44% medio annuo) che in Europa (2,2%). Questo probabilmente è spiegabile anche con il tipo di crescita, dove il capitale fisico (in giallo quello non ICT, in blu quello ICT) spiegano interamente la (misera) crescita italiana, mentre le nuove tecnologie, legate al capitale intangibile (software, in rosso, R&S in verde) contribuiscono per una parte irrilevante (l’ 8% del misero 0,4% annuo), a differenza di quanto avviene in Europa. Ancora più preoccupante è il fatto che la TFP (in blu) contribuisce in Italia in modo negativo (!) alla crescita della produttività, cosa che accade solo in Spagna, mentre altrove,e soprattutto in Finlandia, Svezia, Paesi Bassi, UK, contribuisce in maniera positiva e preponderante (il quadro italiano è completato dai dati su i bassi livelli di R&S in rapporto al PIL, di investimento in capitale umano, e di un pattern nella specializzazione internazionale congelata nei settori low-tech e di una sostanziale immobilità sociale). Insomma, far ripartire il paese non sarà compito né facile né breve.
a cura di Eta Beta per ComunicareITALIA e Paolo Manasse – vedi Linkiesta.it
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